La crisi sanitaria determinata dalla pandemia da Covid 19 si è abbattuta lo scorso anno su una nazione che non aveva ancora asciugato le ferite e superato del tutto la crisi finanziaria che colpì l’Occidente nel 2008 con gravi ripercussioni sul lavoro. Rispetto al 2007, l’anno prima della crisi, infatti, quasi tutti i dati economici e occupazionali del 2020 sono peggiori.
Se consideriamo la ricchezza, l’Italia di questi mesi ha un Pil inferiore di circa il 5% rispetto a quello del 2007, un debito pubblico più alto del 18%, una capacità produttiva inferiore del 12% e una ricchezza privata delle famiglie, che un tempo era tra le più alte al mondo, che è diminuita di circa il 14%. Siamo più poveri, lavoriamo e produciamo meno di dodici anni fa.
Il fattore umano, sviluppo mancato
La crisi del 2020 si è quindi abbattuta su un Sistema Paese che non era ancora riuscito ad agganciare quella ripresa globale che si era resa possibile, quantomeno dal 2012, grazie alla rivoluzione digitale e alle dinamiche dei mercati internazionali.
Uno dei ritardi più evidenti del decennio tra il 2009 e il 2019 è stato quello relativo alle riforme del lavoro, a quel “fattore umano” che costituisce lo snodo dei processi di qualificazione della domanda e dell’offerta determinati dall’evoluzione del Quarto Capitalismo.
L’Italia ha investito negli ultimi anni circa la metà della Germania e un terzo in meno di Gran Bretagna e Francia in quei fattori che determinano il grado di sviluppo umano, ossia la capacità di resilienza determinata dal livello di autonomia delle persone nella vita e nel lavoro. Si tratta della combinazione tra gli investimenti che riguardano il sistema sanitario, il welfare, la formazione e il mercato del lavoro.
Mentre il sistema sanitario si è complessivamente indebolito, il sistema formativo ha sofferto di una diminuzione delle risorse disponibili e degli investimenti e le riforme sociali e del lavoro avviate, come il Jobs Act con i decreti del 2015, non sono state completate.
Le priorità da affrontare per la ripresa occupazionale italiana: governance, salari, infrastrutture, ammortizzatori e formazione
Va inoltre considerato come il sistema di intervento per lo sviluppo umano sia in Italia legato alla competenza e alla responsabilità delle Regioni e non è un caso che i territori che in questi anni hanno mostrato un migliore dinamismo economico e sociale siano stati quelli che hanno saputo avviare interventi più incisivi proprio sui fattori dello sviluppo umano, in particolare sull’organizzazione e promozione dell’offerta formativa e dei servizi per il lavoro.
L’evoluzione della domanda delle imprese determinata dai mercati e connessa alle logiche del Quarto Capitalismo ha infatti imposto un processo di progressiva qualificazione della forza lavoro e una diminuzione della domanda di lavori a bassa qualifica, alla quale i sistemi regionali del lavoro e della formazione italiani non hanno saputo in questi anni rispondere adeguatamente e in modo omogeneo.
Si è determinato in questo modo il fenomeno dello “skill shortage”, ossia il fatto che il 30% dei profili richiesti dalle imprese italiane è in media di difficile reperibilità, con punte fino al 50% per i profili più innovativi. Si tratta di un grave fenomeno che, in assenza di riforme adeguate, è destinato a crescere e a determinare una ulteriore difficoltà per la creazione di occupazione aggiuntiva, ossia il lavoro che viene generato dalla capacità di fare innovazione.
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