Nel periodo più difficile dei negoziati sul Recovery fund, a maggio, Angela Merkel si trovò più volte a difendere l’Italia: i Paesi frugali non si fidavano di come avremmo speso i «loro» soldi. In una intervista la Cancelliera menzionò espressamente l’impegno di Giuseppe Conte a «rivoluzionare» la burocrazia, creando le condizioni per facilitare gli investimenti.
Il Decreto Semplificazioni scalfisce solo i margini di quella montagna di regole e procedure con cui la pubblica amministrazione irrigidisce e rallenta quotidianamente il funzionamento dell’Italia
In effetti, ai primi di luglio il governo di Roma ha varato in pompa magna il Decreto Semplificazioni. Un piccolo progresso, senza dubbio. Che però scalfisce solo i margini di quella montagna di regole e procedure con cui la pubblica amministrazione irrigidisce e rallenta quotidianamente il funzionamento dell’Italia.
Nelle sue linee guida sul Next Generation Eu (il piano straordinario da 750 miliardi), la Commissione ha invitato i governi a spiegare bene da chi e come verranno gestiti i vari progetti. Ribadendo peraltro che, dopo un primo anticipo nel 2021, l’erogazione dei fondi sarà subordinata al rispetto scrupoloso di scadenze e realizzazioni. Come faremo? Gli orientamenti sul Piano di ripresa e resilienza che il ministro Gualtieri ha da poco presentato al Parlamento comprendono l’ammodernamento dell’apparato statale. Ma a parte la nuova enfasi sulla digitalizzazione, gli obiettivi sono gli stessi delle dieci «riforme della pubblica amministrazione» introdotte fra il 1990 e il 2014, che hanno portato a ben pochi risultati.
La situazione è particolarmente allarmante proprio sul fronte delle infrastrutture. Le Relazioni periodiche della Commissione sulle politiche di coesione segnalano con dovizia di dati i ritardi e le manchevolezze italiane. Prendiamo l’indice più sintetico sulla «qualità delle istituzioni e l’efficienza del governo» (capacità e responsabilità esecutiva, corruzione, reclutamento meritocratico, professionalità e così via): il nostro Paese è agli ultimi posti in graduatoria, dietro di noi ci sono solo Grecia, Bulgaria e Romania. Per giunta, questi ultimi due Paesi hanno significativamente migliorato la loro posizione in confronto a dieci anni fa, mentre noi l’abbiamo peggiorata.
Il secondo passo deve essere più ambizioso e aggredire l’intera cornice di gestione delle infrastrutture, in particolare quelle co-finanziate dalla Ue. Nel sistema attuale ci sono troppi attori e troppi passaggi, con scadenze indefinite e scarsa attenzione per la sostanza, il monitoraggio, la valutazione dei risultati. In alcune regioni del sud un’iniziativa banale come il restauro di un edificio scolastico a valere su fondi Ue può richiedere fino a cinque anni. Insomma, troppa legge, poco management. E, nonostante il castello di regole, il sistema tende a generare comunque frodi, molta corruzione e poca imparzialità.
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